È passato poco più di un mese e solo ora riesco davvero a scrivere qualcosa.
Ci ho messo tempo, sì. Tempo per lasciare sedimentare tutto: le emozioni, i racconti, gli incontri.
Perché a Vinitaly non ho solo degustato vini — ho ascoltato vite. Alcune di quelle storie mi sono rimaste addosso come se le avessi vissute io. È stato un viaggio che mi ha aperto la mente e il cuore, un promemoria potente di quanto l’Italia sia grande. Grande non in senso geografico, ma umano: fatta di persone, di mani, di visioni. Forse è proprio questo che mi ha colpita più di tutto: scoprire quanta bellezza possa nascere da un territorio quando qualcuno decide di ascoltarlo davvero.
Così, con il cuore pieno, ho iniziato a ripercorrere quei giorni, un produttore alla volta. Ognuno con la sua voce, il suo passo, il suo modo di raccontare il vino — che poi è sempre un modo di raccontare se stessi.
Non sono riuscita a vedere tutto, ovviamente. Ma quello che ho incontrato mi è bastato per sentirmi dentro qualcosa di vero.
È difficile fare un sunto di questa edizione. Ma una cosa è chiara: c’era entusiasmo. Autentico, concreto.
Ho deciso di dedicare il mio percorso ai vitigni lontani dal Piemonte, a chi lavora con rispetto e visione. Non è una lista, non è una guida. È un percorso. Un pezzo di strada fatto insieme a loro.

Il mio viaggio inizia a Montepulciano, alla Cantina Chiacchiera. Sono stata colpita dalla Mahti, Vino Nobile di Montepulciano Riserva, 100% Sangiovese. Le uve arrivano da Poggio Casa, il miglior vigneto di famiglia. Emanuela e la sua famiglia ci mettono cuore e mani. È un vino che sa di casa, di dedizione vera, di chi ama profondamente la propria terra.
Sono passata poi in Valpolicella da Siridia: un progetto giovane ma poetico. Edoardo e Samuela Speri hanno idee solide e profonde. Qui c’è visione, coraggio e una sensibilità che raramente ho incontrato altrove. La loro idea di vino va oltre il prodotto: è arte, è espressione, è spazio libero per l’immaginazione. Si parte dai grandi classici — Valpolicella Classico, Amarone, Recioto — interpretati con eleganza, profondità e coerenza. Ma poi si vola: vermouth con uve appassite di Amarone — dei veri geni — e poi… le selezioni affinate in mare.

Sì, in mare: bottiglie sommerse, lasciate lì a evolvere come fossero creature vive, sospese nel tempo e nello spazio. Non è solo sperimentazione, è poesia. E a me la poesia nel vino piace, quando è vera. Un’ispirazione unica.

Poi da Chianti Rufina, famiglia Gondi.
Qui ho fatto un salto indietro nel tempo, ma con i piedi ben piantati nel presente. Sono andata a trovare la famiglia Gondi, e già dirlo così fa effetto: parliamo della 25ª generazione di viticoltori. Venticinque.
Hanno documenti che li vedono attivi nel mondo del vino fin dai primi del 1500. E non è solo un dato storico: lo senti in ogni dettaglio.
Ancora oggi raccolgono ogni grappolo a mano, con una precisione quasi rituale. Sangiovese, Colorino — un clone autoctono che riproducono lì da oltre cent’anni — Merlot, Trebbiano Toscano.
Un luogo che respira: Poggio Diamante, Villa Bossi, Pian dei Sorbi.
Vini che non gridano, ma si impongono con struttura, eleganza, profondità. Hanno un carattere definito, ti parlano piano e poi restano lì, nitidi. È una di quelle realtà che ti fanno venire voglia di ascoltare, di capire, di tornare.
Parlando di “micro mega size quality”, ho conosciuto Gaetano di Carlo e, con lui, il suo Catarratto a Corleone.
Io con i bianchi non ho mai avuto un gran rapporto, ma con Gaetano è stato diverso.
È riuscito a raccontarmi un territorio intero in un calice solo. E alla fine, quel vino mi ha fatto innamorare.
Mi sono sentita ignorante — nel senso più puro — perché di Corleone non sapevo nulla, o quasi. E invece, tra le sue parole e i profumi del bicchiere, ho iniziato a vedere immagini, sentire storie, intuire radici.
Il suo Catarratto IGP “Lù” è, per me, il migliore mai bevuto. E non lo dico con leggerezza.
A distanza di mesi, ce l’ho ancora in testa con quei profili organolettici precisi e profondi.
Segno che qualcosa è arrivato davvero, senza filtri. Grazie Gaetano, per avermi aperto un mondo intero senza muovermi da lì.

Restando in Sicilia, mi sono spostata sull’Etna. Un altro mondo, un’altra energia.
Lì la vigna sembra sfidare la terra, e la terra risponde con carattere, fuoco e grazia insieme.

Con Palmento Costanzo ho fatto una degustazione che, più che tecnica, è stata quasi didattica — ma nel senso più bello del termine.
Mi ha aiutata a leggere il vulcano attraverso il Carricante, che cambia voce da contrada a contrada.
In alcuni versanti è più teso, dritto, agrumato, con un’acidità affilata che pulisce e sorprende.
Altrove invece si apre, si fa più generoso, e arrivano note di frutta gialla matura, cenni affumicati, mineralità salina che sa di scogliera.
E tutto questo… su un vulcano.
Un vulcano vivo, che si sente, che lascia traccia. È stata una tappa intensa, quasi silenziosa. Un vino che ti obbliga ad ascoltare, e non solo a bere. L’Etna ha mille voci, e qui ho iniziato a riconoscerne qualcuna.
Ultima tappa siciliana: Cerasuolo di Vittoria.
L’unica DOCG dell’isola.
Mi ci sono avvicinata grazie allo stand della denominazione e lì ho scoperto la cantina di Paolo Calì, situata nell’areale classico, a soli dieci chilometri dal mare.
Non ho avuto modo di conoscerlo di persona, e questo un po’ mi è dispiaciuto.
Le domande sono rimaste lì, sospese, come promesse ancora da compiere. Ma magari un giorno arriverà anche quel momento.

Il suo Manene — Nero d’Avola 60%, Frappato 40% — mi ha colpita per equilibrio e freschezza. Ma è stato il Forfice, 50 e 50 tra gli stessi vitigni, a incuriosirmi ancora di più: sembra quasi raccontare l’incontro-scontro tra due anime diverse che imparano a stare insieme.
Una tappa che sa di inizio più che di conclusione. Una porta aperta su un territorio che voglio conoscere meglio, passo dopo passo, sorso dopo sorso.

Ho concluso poi con un accenno di Campania — Michele Perillo.
Il Taurasi Riserva 2012 è stato il mio primo vero Aglianico. Un vino che ha una presenza, che ti mette alla prova. Io l’ho sentito subito: forte, diretto. O piace o non piace. A me è piaciuto.
Vinitaly per me è questo: lasciarsi sorprendere, lasciarsi prendere. E quando succede, non lo dimentichi.